Ha cominciato a lavorare a
maglia e a filar la lana quando aveva solo dodici anni,
Gisella De Toni. Oggi di anni ne ha quasi 79 e continua a
sferruzzare coi vecchi strumenti di un secolo fa anche se la
vista non è più quella della giovinezza.
«Oggi lo faccio per
passare il tempo, per le feste, per far qualche regalo -
dice - ma quando ero piccola era un'attività vitale per i
miei genitori e per i parenti di casa. In momenti di
necessità e di miseria si lavorava tutti, anche i bambini».
Gisella è nata ed è
sempre vissuta a Chiaulis di Paularo , un bel borgo dove
hanno abitato pure i nonni, Giacomo Fabbro, che di mestiere
faceva il fabbro, e Maria De Crignis che invece ha fatto la
casalinga. Loro, per quei tempi, con le loro nove pecore,
tutto sommato stavano bene e di figli ne hanno avuti otto.
Uno di loro è nato durante la Grande Guerra ed è morto ad
appena vent'anni. «Il quarto arrivato in famiglia, Giacomo,
era mio padre - racconta Gisella -; per cercare di sfamare
moglie e figli e per metter via qualcosa è emigrato in
Svizzera. Ha sposato mamma, Maria De Toni che, per aiutarlo,
ha fatto la casalinga, s'è arrangiata in mille mestieri e
ha allevato noi ragazzi».
In casa si allevava anche
qualche mucca ma il numero più alto di animali era
costituito comunque dalle pecore.
«Si tosavano due volte
all'anno e poi la lana veniva filata col vecchio fuso. Si
stava parecchio ma alla fine si otteneva un materiale
morbido con cui confezionavamo praticamente tutto: maglie da
mettere sotto, intimo, maglioni, calzetti, sciarpe, guanti.
Oggi in montagna le pecore si tengono ancora ma non vengono
tosate come una volta tanto che il loro vello risulta più
grosso e crespo. Questo perché la tosa si fa una volta sola
in un anno e il pelo, che struscia di più, si rovina e si
sporca. Noi lo chiamiamo allora pelo di cane e sappiamo che
non è di primissima qualità. Mamme e nonne ci insegnavano
fin da piccole anche a ricamare e a cucire, tutte cose che
ci sono servite nella vita e che bisognerebbe trasmettere
anche alle nuove generazioni di oggi».
Gisella confeziona ancora
calzettoni bianchi da montagna, da indossare con gli scarpez,
o più grossi da mettere in casa con le pantofole, o ancora
da portare con gli scarponi. Insieme a lei, a Paularo , a
ricordare quando di filava con fusi e corletta c'è pure
Ines Di Gleria, 83 anni.
Lei ha imparato l'arte
della lana dalla nonna Carmela Gaspare, nativa di Salino,
una donna forte, tutta d'un pezzo, che aveva sposato Carlo.
«Io filo da quando avevo 13 anni - racconta -; da bambine
facevano anche gli scarpetz ma non si ricamavano, se non
quelli di festa, più preziosi. Era vita dura, quella di una
volta. Di miseria. Anche se avere qualche bestia e una vacca
ci faceva sentire ricchi. Mangiar si mangiava, la sope di
scuete, ad esempio, cioè una minestra povera fatta con i
resti della lavorazione del latte. Il pane lo facevamo in
casa con la farina macinata in mulino. Il piatto tipico,
tanto per far capire cosa si metteva a tavola, era il pane
unto nel burro, el pan ont, insomma».
C'era poi la polenta,
immancabile, con un pezzo di formaggio. «A volte solo le
croste della polenta. Caffé poco e solo di orzo. Gran
ricchezza costituiva il sain, il grasso animale che fin si
nascondeva per tenerlo fuori dalla vista dai mongui, ovvero
dai cosacchi, sempre in cerca di cibo».
Ines ha imparato a lavorare
a maglia, a cucire, rammendare e, infine, anche a ricamare.
«Oggi nessuna ragazza vuole dedicare un po' di tempo a
queste cose - dice con rammarico -; invece di far tanti
corsi che non hanno utilità pratica, le donne dovrebbero
ritornare dalla sarta e farsi insegnare a cambiare un
bottone, a fare un orlo ai pantaloni, a cambiare una
cerniera, ad accorciare maniche.
«Questa è economia
domestica e non è roba da vecchi. Coi tempi che corrono non
ci si può permettere più di buttare via un paio di braghe
perché le cerniera si è rotta. Di donne che saranno fare
una modifica a un capo, magari diventato un po' stretto o
largo, non ce ne sono più. Ed è difficile anche trovare
una sarta disposta a farti un lavoretto da poco, perché non
conviene per i soldi e porta via tanto tempo. Io so anche
ricamare ma la ritengo un'arte per certi versi inutile e
superflua. Bisogna imparare altre cose prima».
È stata la nonna di Ines,
Rina Linussio, che in paese chiamavano la scarpettaia, a
darle questo insegnamento di vita pratica, per tirare avanti
con dignità, anche in tempi di crisi. «Da piccola si
filava la lana per mille lire al chilogrammo, riunite vicino
al fogolar. Poi sono arrivate la macchina da cucire e le
macchina per far le maglie. Ma nei decenni non abbiamo mai
dimenticato le lezioni dei nonni che erano e restano lezioni
di vita, per tutta la vita».
Accanto a lei, sull'uscio
di casa, a Paularo , vestita con abiti tradizionali carnici,
c'è anche Lidia Di Gleria, 62 anni, esperta di ricamo.
Sorride con affetto ascoltando Ines e mostra con orgoglio il
suo giacchino riccamente decorato a ricamo floreale.
«Questo gilé l'ho fatto
da sola - dice - e l'ho portato con me a tanti concerti,
anche fuori dal Friuli. Credo che la bellezza del ricamo
colorato fatto a mano abbia la sua importanza, forse oggi più
che ieri, nel tentativo di mantenere gli usi e costumi dei
nonni, seppure limitati in questo caso ai giorni di festa».
|