Giovedi, 02 Ottobre  2008

Gisella ha cominciato a lavorare a ...

Ha cominciato a lavorare a maglia e a filar la lana quando aveva solo dodici anni, Gisella De Toni. Oggi di anni ne ha quasi 79 e continua a sferruzzare coi vecchi strumenti di un secolo fa anche se la vista non è più quella della giovinezza.

«Oggi lo faccio per passare il tempo, per le feste, per far qualche regalo - dice - ma quando ero piccola era un'attività vitale per i miei genitori e per i parenti di casa. In momenti di necessità e di miseria si lavorava tutti, anche i bambini».

Gisella è nata ed è sempre vissuta a Chiaulis di Paularo , un bel borgo dove hanno abitato pure i nonni, Giacomo Fabbro, che di mestiere faceva il fabbro, e Maria De Crignis che invece ha fatto la casalinga. Loro, per quei tempi, con le loro nove pecore, tutto sommato stavano bene e di figli ne hanno avuti otto. Uno di loro è nato durante la Grande Guerra ed è morto ad appena vent'anni. «Il quarto arrivato in famiglia, Giacomo, era mio padre - racconta Gisella -; per cercare di sfamare moglie e figli e per metter via qualcosa è emigrato in Svizzera. Ha sposato mamma, Maria De Toni che, per aiutarlo, ha fatto la casalinga, s'è arrangiata in mille mestieri e ha allevato noi ragazzi».

In casa si allevava anche qualche mucca ma il numero più alto di animali era costituito comunque dalle pecore.

«Si tosavano due volte all'anno e poi la lana veniva filata col vecchio fuso. Si stava parecchio ma alla fine si otteneva un materiale morbido con cui confezionavamo praticamente tutto: maglie da mettere sotto, intimo, maglioni, calzetti, sciarpe, guanti. Oggi in montagna le pecore si tengono ancora ma non vengono tosate come una volta tanto che il loro vello risulta più grosso e crespo. Questo perché la tosa si fa una volta sola in un anno e il pelo, che struscia di più, si rovina e si sporca. Noi lo chiamiamo allora pelo di cane e sappiamo che non è di primissima qualità. Mamme e nonne ci insegnavano fin da piccole anche a ricamare e a cucire, tutte cose che ci sono servite nella vita e che bisognerebbe trasmettere anche alle nuove generazioni di oggi».

Gisella confeziona ancora calzettoni bianchi da montagna, da indossare con gli scarpez, o più grossi da mettere in casa con le pantofole, o ancora da portare con gli scarponi. Insieme a lei, a Paularo , a ricordare quando di filava con fusi e corletta c'è pure Ines Di Gleria, 83 anni.

Lei ha imparato l'arte della lana dalla nonna Carmela Gaspare, nativa di Salino, una donna forte, tutta d'un pezzo, che aveva sposato Carlo. «Io filo da quando avevo 13 anni - racconta -; da bambine facevano anche gli scarpetz ma non si ricamavano, se non quelli di festa, più preziosi. Era vita dura, quella di una volta. Di miseria. Anche se avere qualche bestia e una vacca ci faceva sentire ricchi. Mangiar si mangiava, la sope di scuete, ad esempio, cioè una minestra povera fatta con i resti della lavorazione del latte. Il pane lo facevamo in casa con la farina macinata in mulino. Il piatto tipico, tanto per far capire cosa si metteva a tavola, era il pane unto nel burro, el pan ont, insomma».

C'era poi la polenta, immancabile, con un pezzo di formaggio. «A volte solo le croste della polenta. Caffé poco e solo di orzo. Gran ricchezza costituiva il sain, il grasso animale che fin si nascondeva per tenerlo fuori dalla vista dai mongui, ovvero dai cosacchi, sempre in cerca di cibo».

Ines ha imparato a lavorare a maglia, a cucire, rammendare e, infine, anche a ricamare. «Oggi nessuna ragazza vuole dedicare un po' di tempo a queste cose - dice con rammarico -; invece di far tanti corsi che non hanno utilità pratica, le donne dovrebbero ritornare dalla sarta e farsi insegnare a cambiare un bottone, a fare un orlo ai pantaloni, a cambiare una cerniera, ad accorciare maniche.

«Questa è economia domestica e non è roba da vecchi. Coi tempi che corrono non ci si può permettere più di buttare via un paio di braghe perché le cerniera si è rotta. Di donne che saranno fare una modifica a un capo, magari diventato un po' stretto o largo, non ce ne sono più. Ed è difficile anche trovare una sarta disposta a farti un lavoretto da poco, perché non conviene per i soldi e porta via tanto tempo. Io so anche ricamare ma la ritengo un'arte per certi versi inutile e superflua. Bisogna imparare altre cose prima».

È stata la nonna di Ines, Rina Linussio, che in paese chiamavano la scarpettaia, a darle questo insegnamento di vita pratica, per tirare avanti con dignità, anche in tempi di crisi. «Da piccola si filava la lana per mille lire al chilogrammo, riunite vicino al fogolar. Poi sono arrivate la macchina da cucire e le macchina per far le maglie. Ma nei decenni non abbiamo mai dimenticato le lezioni dei nonni che erano e restano lezioni di vita, per tutta la vita».

Accanto a lei, sull'uscio di casa, a Paularo , vestita con abiti tradizionali carnici, c'è anche Lidia Di Gleria, 62 anni, esperta di ricamo. Sorride con affetto ascoltando Ines e mostra con orgoglio il suo giacchino riccamente decorato a ricamo floreale.

«Questo gilé l'ho fatto da sola - dice - e l'ho portato con me a tanti concerti, anche fuori dal Friuli. Credo che la bellezza del ricamo colorato fatto a mano abbia la sua importanza, forse oggi più che ieri, nel tentativo di mantenere gli usi e costumi dei nonni, seppure limitati in questo caso ai giorni di festa».

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